Pomidoro giallo

Quel pomodoro velenoso e la forza dei divieti alimentari

di Lina Malafronte

“Di color di zafferano”, succulento trait d’union tra Vecchio e Nuovo Mondo, il suo nome è pomodoro. Quello attuale però. Perché quando solcò i mari a bordo delle caravelle e approdò sulle coste europee i suoi frutti gialli lo fecero appellare mala aurea. E null’altro si conosceva di quella specie di melanzana, se non l’oro che le dava un’identità.

Aveva tutte le carte in regola per essere evitato. L’affinità con la mandragora, pianta infernale e tossica, che qualcuno soleva chiamare pomo di Satana o pomo dell’amore, gli valsero la cattiva reputazione. Assai peggio quando la sua forma tondeggiante e la morbida polpa iniziarono a essere addentate con cotanto schizzo di semi e di succo.

Prima di giungere a questo, però, il nuovo arrivato dalle Americhe dovette contare oltre centocinquanta anni vissuti come pianta puramente decorativa. Poi, il ribaltone. Da ornamentale a buona da mangiare e all’esplosione di varietà di forme, dimensioni e colori che tutti conosciamo.

Se alla fine le bacche portate dai conquistadores sono riuscite a scrollarsi di dosso l’avversione e i pregiudizi iniziali per primeggiare, in tempi più vicini a noi, come ingrediente chiave della dieta mediterranea, su alcuni altri cibi pendono tuttora dei no e delle restrizioni.

Mangiare secondo specifiche regole non è certamente una cosa recente. La Bibbia già faceva menzione di ciò che era ammesso consumare e ciò che, al contrario, era inconsumabile. Sicché l’alimentazione, al di là del bisogno primario e naturale dell’uomo di nutrirsi, è sottoposta a un complesso di norme che, nel costellare la vita di un popolo, rivela molto sulla sua stessa identità.

Costrutti culturali difficili da decifrare, i tabù sfuggono alla redini del raziocinio e, seppur mancanti di una spiegazione logica, “per quanto incomprensibili agli estranei, sembrano del tutto naturali a coloro che ad essi sono sottoposti”.

Da vacche e vitelli che sono sacri per gli indù alla cucina kosher e alla distinzione tra animali mondi e immondi operata dagli ebrei, dall’avversione per il maiale dei musulmani al rifiuto di cibarsi di cavallo degli anglosassoni e di animali domestici degli occidentali, primi fra tutti cani e gatti, regolarmente cucinati, invece, dai cinesi: ci sono pietanze che, qua e là, sono bandite perché soggette a divieti assoluti o temporanei. Se allora guardassimo il mondo dall’alto vedremmo dispiegare davanti ai nostri occhi un ventaglio di interdizioni che, pur tracciando dei confini, rendono l’incontro con gli “altri” genuinamente avventuroso.

Si privava di carne e spregiava il sacrificio degli animali anche Pitagora che, raccomandando ai suoi discepoli di essere vegetariani, indicava di saziarsi con cereali, frutta, verdura, latte e miele. Tutto fuorché le fave.

“Astieniti dalle fave”. Riattualizzato avrebbe la forza piena di un undicesimo comandamento. Era il precetto che il filosofo di Samo – che, in realtà, di comandamenti ne scrisse 34 – diede ai pitagorici. Forse la stretta somiglianza con l’organo sessuale maschile, la credenza che mettesse in contatto con il mondo dei morti o ancora l’idea che fosse vicina alla natura della carne umana spinsero alla proibizione non solo del mangiare ma pure del toccare quella leguminosa.

Fortuna che per noi non è tabù mangiare fave perché Enzo Coccia ha dedicato alla primavera una pizza che alla stagione appena trascorsa ha sottratto il nome. E non solo. Con lardo di colonnata, mozzarella di bufala campana, olio evo, pecorino di Laticauda ha abbinato fave fresche e asparagi per una scarica di sapori che sedurrebbe persino Pitagora e i suoi adepti.