Il pane del Vesuvio

di Eduardo Ore
Vi sarà sicuramente capitato, almeno una volta nella vita, di vedere il golfo di Napoli, anche se solo in cartolina, con il Vesuvio a padroneggiare sullo sfondo. Tra la visibile colata lavica dell’ultima eruzione del 1944 e il Monte Somma che ha dato i natali al Vulcano, a circa 16 km in linea d’aria dal cratere, si trova un paesino che conta più o meno 9.000 abitanti e che prende il nome dal suo Santo patrono: San Sebastiano al Vesuvio.
Situato a breve distanza dalla città, il comune di Gaetano Filangieri è conosciuto ai campani e agli esperti enogastronomici per il suo pomodorino, comunemente chiamato Piennolo, per il vino di uva Catalanesca e per il suo squisito pane. E oggi voglio parlarvi proprio del pane di San Sebastiano.
Onnipresente sulla tavola dei napoletani, soprattutto durante i pranzi della domenica, si distingue dal pane comune bianco, prodotto non solo Napoli e dintorni ma anche in parte del meridione d’Italia, per il rispetto di una tradizione ultrasecolare che impone l’uso di farine di grano tenero di media forza (storicamente miscelate con grano duro), l’utilizzo di acqua a basso contenuto di calcio (si è sempre serviti dell’acqua dell’ acquedotto augusteo di epoca romana del Serino
), l’impiego di lievito madre al limite dell’acidità, in gergo chiamato pasta di criscito o semplicemente criscito, la cottura in forni a camera alta costruiti a mano da esperti mastri fornai e alimentati fino a un decennio fa a fascine di castagno, usanza quest’ultima che, per questioni igieniche e per salvaguardare la platea dalla frequente pulizia con scope di fruscia molto bagnate, è stata soppiantata dal ricorso a bruciatori alimentati con scorze di nocciole.
Per non dimenticare “la lunga maturazione” che, come in tutti i panificati di alta qualità, dura circa 15 ore, avviene a temperatura ambiente, controllata dall’esperienza dei maestri panettieri, o con l’aiuto di celle frigorifere nei pochi mesi caldi dell’anno. Eccezion fatta per la fase di impastamento che, considerati i grossi volumi, dai 5 ai 10 quintali giornalieri per le botteghe a conduzione familiare, avviene con l’impastatrice, si tratta di un processo totalmente artigianale con la pezzatura e la formatura di palatoni, da 1 kg o 1,5 kg , e palatelle, da 500g. Un processo codificato in un rigoroso disciplinare di produzione che, tuttavia, non è stato ancora riconosciuto per colpa della troppa burocrazia.
Errata e per di più offensiva per i panettieri sansebastianesi è la dicitura “pane cafone”, il pane bianco dalla forma più larga, solitamente prodotto con lievito di birra compresso e con tempi di lievitazione più brevi, per essere poi cotto in forni elettrici su suoli refrattari.
Da San Sebastiano a Pollena Trocchia passando per Massa di Somma e Cercola, l’amore e la passione verso questo prodotto e il suo territorio hanno giocato un ruolo chiave nel preservare questa tipologia di pane, tuttora prodotto come si faceva 100 anni fa.
Dalla crosta spessa, croccante e saporita alla morbida e profumata mollica, con gli inconfondibili alveoli che lo fanno somigliare ai formaggi svizzeri, appena sfornato, ancora caldo, sprigiona degli aromi che regalano intense emozioni.
Il mio augurio è che tra 50 anni questa tradizione sia ancora in vita. Viva San Sebastiano e il suo pane!